L'origine della cattedrale ascolana si perde nel buio dei secoli, ma non si va lontano dal vero se la si fa risalire alla fine del IV o agli inizi del V secolo. Sorse senza dubbio sopra le rovine e i frantumi di edifici romani come canto di trionfo sul distrutto impero degli idoli; restano di ciò tracce evidenti sotto i muri perimetrali del Battistero, che con tutta probabilità fu edificato circa nello stesso periodo.
La chiesa ebbe certamente forma basilicale: due ali di colonne dovevano dividerne in tre navate il corpo, unendole a croce latina con la navata trasversale, rimasta in gran parte nella forma originaria, come dimostrano i grandi massi di travertino usati nella facciata di fronte al Seminario, i quali senza dubbio appartennero ad edifici romani precedenti.
Da un rozzo incavo ad arco praticato sulla parete, dove è incastonata la pietra con l'iscrizione Porta vocor musae, si può arguire che la larghezza fosse inferiore a quella attuale; ma la lunghezza doveva essere pressoché la stessa di oggi, considerando gli enormi massi ancora presenti all’interno alla base della torre fino a una certa altezza, simili in tutto a quelli della parete presso la Porta della Musa. Sul transetto, in corrispondenza della navata mediana, si apriva in forma circolare l’abside, assai più breve di quella attuale, ove si trovavano la cattedra e l’altare.
Questa era la Cattedrale che accolse i primi fedeli per i riti sacri, le preghiere, e tutte le manifestazioni religiose nella forma adottata ovunque dalla Chiesa romana; ed era dedicata all’Assunta, o come dicono alcuni storici, a Santa Maria Maggiore.
Ma le lotte contro gli ariani, vive qui come altrove, e le orde dei barbari che angosciarono, spogliarono e dispersero le popolazioni, ebbero una triste ripercussione sul decoro della casa di Dio e ne affrettarono, per mancanza di cure, il deperimento.
Tra i primi restauri significativi si annoverano quelli del vescovo Euclere, di origine longobarda. Durante il suo lungo episcopato, Euclere promosse la costruzione di nuove chiese e monasteri, offrendo rifugio ai Benedettini perseguitati dai Saraceni. La trasformazione più notevole attribuita a lui fu l’erezione della cupola ottagonale sulla cattedrale, un intervento che cambiò radicalmente la forma basilicale in quella bizantina.
Questa cupola, realizzata in travertino ben squadrato, si innalza con eleganza, coronata da un lanternino e una croce che sembra abbracciare l’intero edificio con le sue braccia pietose.
Il periodo del Rinascimento non poteva non riflettersi anche nel Duomo di Sant’Emidio. Sotto la guida del vescovo Caffarelli (1464-1500), la cattedrale subì importanti ampliamenti e abbellimenti.
La navata centrale fu sollevata su robuste colonne ottagonali, e l’abside fu allungata per ospitare un meraviglioso coro in noce intagliato, opera di maestri artigiani come Paolino d’Ascoli e Francesco di Giovanni.
Fu in questo periodo che la facciata esterna del Duomo, in particolare quella verso il Battistero, fu abbellita con eleganti decorazioni rinascimentali, tra cui la famosa Porta della Musa.
Questi lavori aggiunsero un nuovo splendore artistico e spirituale alla cripta, rendendola un luogo di grande devozione.
Nel 1704, nuovi interventi furono eseguiti nella cripta attorno all’urna di Sant’Emidio. L’architetto Giuseppe Giosafatti e suo figlio Lazzaro introdussero colonne ioniche di rosso Verona e marmi di Carrara, arricchendo ulteriormente l’area sacra con un gruppo marmoreo raffigurante Sant’Emidio che battezza la vergine Polisia.
Verso la fine del XIX secolo, il vescovo Elia Antonio Alberani intraprese una serie di restauri fondamentali, collaborando con il pittore romano Cesare Mariani e l’architetto Giuseppe Sacconi.
Questi interventi miravano a unificare le varie epoche architettoniche del Duomo, fondendo armoniosamente stili diversi in un unico grande progetto artistico.
La volta della navata centrale fu decorata con affreschi raffiguranti apostoli, dottori e profeti, mentre la grande Assunta, dipinta da Mariani, fu collocata tra l’arco della cupola e quello della navata mediana.
Nella cupola, il Mariani, sostenuto dall’opinione di molti eruditi che la ritenevano anteriore all’anno Mille, scelse di attenersi a uno stile solenne e simbolico ispirato all’arte bizantina e romanica.
Al centro della calotta, su un fondo azzurro adatto, circondata da cherubini, dipinse la maestosa figura del Cristo benedicente, da cui si irradiano lunghi raggi dorati. Intorno, su un lieve strato di nubi, dispose figure di angeli vestiti di bianco, in piedi, che sorreggono gli strumenti della Passione.
Nella parte più alta del tamburo, tra le palme, Mariani raffigurò la serie dei Santi venerati nella Chiesa ascolana: figure calme nell’aspetto ma interiormente animate da una fiamma di vita spirituale, nobilmente atteggiate, che sembrano guardare con pietosa premura le miserie degli uomini.
Pur non adottando la solennità monumentale dei mosaici bizantini, l’artista riuscì a trasmettere lo spirito di un’arte primitiva.
Nelle otto lacche della zona inferiore, Mariani rappresentò la storia di Sant’Emidio. Con varietà di composizioni e drammaticità di scene, l’autore dimostrò sensibilità moderna, pur mantenendo la compostezza delle figure e l’unità dell’insieme pittorico.
A Treveri, nel fiore degli anni, Emidio, giovane di nobile aspetto e animo elevato, è colpito dal fascino della religione cristiana. Ascolta con trasporto i discorsi di due vegliardi sui misteri divini.
Con le mani giunte e lo sguardo rivolto al cielo, appare assorto in una visione. La scena è avvolta da una luce pacifica, rafforzata dal paesaggio. Alcuni giovani, curiosi e stupiti, osservano lo svolgersi dell’evento.
La conversione di Emidio suscita sdegno tra i cittadini, che cercano di ricondurlo al culto pagano. Mentre viene trascinato a forza al tempio di Giove, egli alza le braccia e gli occhi al cielo implorando pietà.
Dio interviene: un violento terremoto abbatte le colonne del tempio, fa crollare l’altare, terrorizza il sacerdote e le vittime destinate al sacrificio. Il prodigio annuncia la protezione miracolosa di Emidio contro i terremoti.
Fuggito dalla patria, Emidio giunge in Italia con i suoi compagni Euplo, Germano e Valentino. Ordinato sacerdote a Milano, riceve poi l’ordinazione episcopale a Roma dal Papa Marcellino, e si dirige verso Ascoli.
Nel quadro, Emidio giunge a Pitino, vicino all’Aquila. Sullo sfondo si intravedono le cime innevate del Gran Sasso. Il Santo benedice i magistrati in toga che si inchinano, mentre lo segue un gruppo di pellegrini. L’accoglienza è grandiosa e solenne.
Nel foro di Ascoli, Emidio inizia la sua predicazione. Un paralitico, sorretto da una giovane donna, si avvicina a lui con speranza. Emidio lo benedice, e il miracolo è imminente.
La folla assiste con emozione; i sacerdoti pagani osservano con ansia; i compagni del Santo, sereni, pregano. La scena è potente per ambientazione e intensità spirituale.
Dal foro cittadino ci si sposta nel palazzo del governatore, il quale aveva promesso in sposa la figlia Polisia al giovane apostolo.
Polisia è seduta in una stanza elegante, circondata da oggetti di toeletta e libri. È adornata con abiti ricchi e gioielli. Emidio, ispirato, le parla con fervore.
La giovane ascolta con le mani incrociate, combattuta tra l’ammirazione e l’incanto della parola nuova. Ma la vittoria è dell’apostolo: Polisia non sarà sua sposa, ma figlia spirituale in Cristo, immagine di virtù che la posterità ricorderà con venerazione.
Secondo la tradizione, Emidio fece sgorgare l’acqua presso Borgo Solestà, ma Mariani colloca il battesimo sulle rive del fiume.
In testa alla folla dei catecumeni vi è Polisia, che si curva sotto la mano benedicente di Emidio, ricevendo l’acqua rigeneratrice. Non è più la fanciulla sontuosa: ora è una vergine consacrata a Dio.
Accanto a lei vi è Glafira, già ancella e ora compagna nel cammino della fede, seguita da altre giovani. L’immagine è carica di misticismo e purezza.
In una scena drammatica e intensa, sul terreno insanguinato giacciono corpi decapitati: sono i martiri della fede. Anche il Santo Vescovo è stato ucciso, ma si rialza, prende in mano la propria testa e, sereno, cammina verso il suo luogo di sepoltura.
Attorno a lui lo sgomento è totale: il carnefice abbandona l’arma fuggendo, una donna si dispera, altri restano paralizzati dalla paura. Il cielo è luminoso e gli angeli cantano la gloria del martire, che già appare trasfigurato nella luce divina.
Secondo la (non solida) testimonianza del Marcucci, la traslazione del corpo avvenne sotto l’episcopato di San Claudio (345-370).
Il quadro rappresenta San Claudio in atteggiamento ispirato, tra due assistenti angelici. Dietro di lui, la bara del Santo, coperta da un velo nero con corona di fiori, è trasportata fuori dalla grotta illuminata da candele.
Nei pennacchi della cupola, al centro di quattro spazi ovali concavi, sono dipinte a mezzobusto le virtù teologali e la fortezza, fondamento della vita cristiana e sostegno ideale dell’intero programma pittorico.
La parte architettonica degli ultimi restauri fu affidata, come detto, al genio dell’architetto Giuseppe Sacconi. Con fine gusto, riaprendo la scala centrale della navata mediana, Sacconi mise in risalto il gruppo marmoreo di Sant’Emidio e Polisia e il pregevole colonnato del Giosafatti, affascinando chi vi accede.
Avvertendo la necessità di armonizzare la nuova balaustra — composta da pilastrini, basi e cimase in marmo bianco di Carrara e snelle colonnine in breccia rossa di Verona — con la cripta, Sacconi collegò il corpo della chiesa al presbiterio tramite due scalee laterali.
Il risultato fu un insieme armonico di luci riflesse dai marmi policromi, penombre fra gli intercolumni del sotterraneo, e la gloria della cupola, ove “un popolo di Santi parla con Dio”.
Su questo sfondo ideò il superbo ciborio che copre l’altare papale: su basi ottagonali ornate di marmo bianco si innalzano quattro colonne in marmo nero africano, coronate da capitelli decorati con gigli intrecciati alle volute, di straordinaria eleganza.
Sopra i capitelli, uniti da catene in ferro battuto, si sviluppano archi acuti con tabernacoli angolari in stile gotico. Al di sopra si erge un tamburo ottagonale con colonnine e archetti, sormontato da una piramide e, al culmine, da un lanternino di incantevole leggerezza.
Il ciborio riflette quindici secoli di storia artistica, poiché fu progettato in sintonia con l’ingresso alla cripta e le linee antiche e moderne del tempio. Fu inoltre ornato con bassorilievi e statue di squisita fattura realizzati dall’ascolano Giorgio Paci, e arricchito con motivi decorativi ispirati ad altri monumenti di Ascoli.
Tutto il lavoro, quasi un castello fantastico, fu scolpito con passione da un umile artista, Ciriaco Nori, sotto la direzione del geometra Giovanni Capponi, incaricato da Sacconi, che disegnò anche il pavimento in marmo.
Basti questo a testimoniare quanto resta dell’arte antica nel vetusto tempio, e con giusto orgoglio si può affermare che l’arte moderna, anche ad Ascoli, ha lasciato un monumento degno delle sue nobili origini.
Sulla parete sinistra della Cappella del Sacramento splende un superbo polittico dipinto nel 1473 da Carlo Crivelli. L’opera è suddivisa in cinque riquadri principali, incorniciati da una ricchissima struttura gotica.
Al centro, la Vergine in trono con il Bambino in grembo; alla sua destra si trovano Sant’Emilio e San Paolo; alla sinistra, San Giovanni Battista e San Pietro.
Nella cimasa, i tre comparti superiori raffigurano: al centro la Pietà, ai lati San Girolamo, Santa Caterina Martire, San Giorgio e Santa Orsola.
La predella è suddivisa in undici piccoli riquadri, dove sono dipinti Cristo e dieci Apostoli.
Quest’opera, per la sua soavità di disegno e la bellezza cromatica, è considerata un vero incanto artistico.
Omettendo altri pregevoli lavori pittorici — come il magnifico tabernacolo del Sacramento, gli intagli in noce del pulpito e degli armadi eseguiti da Moys d’Anversa nel 1565 e collocati nella sagrestia (costruita nel 1420) — si passa ora ai principali oggetti antichi del Tesoro.
Il paliotto è realizzato in lamina d’argento a bassorilievo cesellato e suddiviso in ventisette riquadri, nei quali sono rappresentati, con figurine mirabili, i principali episodi della vita del Redentore, dall’Annunciazione all’Ascensione.
In passato alcuni studiosi lo datarono alla fine del secolo XIII, ma un’analisi più accurata ne ha attribuito l’esecuzione al secolo XIV. Lo studioso Emile Bertaux lo ha assegnato a un orefice abruzzese o locale.
Si tratta,
La statua raffigura Sant’Emidio con aspetto giovanile, in piedi, vestito con abiti pontificali. Con una mano impugna il pastorale, con l’altra benedice.
Sull’orlo del piviale e della stola si snodano ornati di squisito gusto. Sul fermaglio che unisce i lembi del piviale è raffigurato Papa Marcellino nell’atto di consacrare Emidio vescovo di Ascoli.
Sulla fronte della mitra sono cesellati in tondi e ovali i santi della Chiesa ascolana. La composizione della statua, solenne e ben proporzionata, ricorda i migliori esempi dell’arte toscana.
In realtà, si tratta dell’opera del maestro ascolano Pietro Vannini, eseguita — forse in collaborazione con un altro artista — poco dopo il 1482.
Si tratta di un reliquiario a forma di braccio, con le prime tre dita della mano tese in atto di benedizione. È interamente realizzato in argento.
Misura 87 cm di altezza, comprensiva della base in rame dorato finemente lavorata, dalla forma esagonale stellata e decorata con motivi filigranati all’interno di sei faccette ovali quadrilobate.
Quest’opera, di straordinaria bellezza per finezza di cesello, smalti e ornamenti, è anch’essa attribuita a Pietro Vannini. La conferma arriva da Emile Bertaux, che ne ha studiato i dettagli con occhio critico e gusto raffinato.
Questo reliquiario riceve un culto di devozione profonda da parte dei fedeli ascolani, ed è anche oggetto di ammirazione artistica da parte di studiosi e appassionati d’arte.
Questa statua è interamente realizzata in argento, della stessa dimensione di quella di Sant’Emidio. È conosciuta come “Madonna di Loreto” e raffigura la Vergine con il Bambino in braccio.
Fu eseguita nel 1613 da Curzio Compagni Fiorentino. Pur non mancando di pregi artistici, non può reggere il confronto con la statua di Pietro Vannini per eleganza e espressività.
Lascio da parte altri oggetti preziosi come:
A chi legge questa breve monografia, si rivolge un invito caloroso a visitare l’antica città del Piceno, dove, dopo aver pregato sulle ceneri del protettore contro i terremoti, potrà deliziarsi tra vestigia romane e monumenti artistici che, da ogni epoca, tramandano con superba eloquenza le glorie della religione e della patria.
Sulla parete della navata destra si apre la Cappella del Sacramento, a croce greca e in stile ionico, sormontata da una bella e ariosa cupola.
Il progetto fu opera degli architetti ascolani Ignazio Cantalamessa e Agostino Cappelli. Il pittore Fogliardi vi dipinse a chiaroscuro i profeti nei pennacchi della cupola, con grande bravura.
Dietro e quasi a sostegno dell’unico altare posto in fondo alla cappella, si innalza un magnifico tabernacolo di legno dorato, realizzato da Desiderio Bonfini di Patrignone, su commissione della patrizia ascolana Aurelia Guiderocchi.
Il tabernacolo, donato nel 1619 alla chiesa di San Francesco e poi trasferito alla Cattedrale poco prima del 1860, è un’opera di grande valore per fantasia decorativa e grazia di disegno.
Le pareti laterali della cappella ospitano due tele che fanno parte di una serie di quattro (le altre due si trovano sulla controfacciata della chiesa), realizzate da Ludovico Trasi poco dopo la metà del XVII secolo.
Esse raffigurano:
La porta esterna del Battistero è in realtà un rivestimento più recente rispetto a quella interna, molto più antica. La base dell’edificio è quadrata, formata da grandi massi di travertino, mentre la parte superiore è ottagonale, con tre archetti per lato sostenuti da eleganti colonnine, ad eccezione del lato orientale che ne ha quattro.
Il rivestimento risale all’epoca romanica, probabilmente al secolo XII. L’edificio presenta due ingressi: uno a ovest e l’altro a sud.
L’ingresso occidentale ha forma rettangolare, con due riquadrature laterali e un triangolo sagomato sopra l’architrave, attraversato da una fenditura. L’ingresso meridionale è costituito da stipiti con sagome e capitelli non rifiniti, sormontati da una lunetta che poggia su un architrave intagliato con una treccia bizantina.
L’interno ha pianta ottagonale, sebbene non perfettamente regolare. Al centro si erge il fonte battesimale, sorretto da un fulcro a spira, rozzo ma non privo di grazia, probabilmente risalente al secolo XIII.
Intorno si conservano avanzi infranti dei massi che formavano in origine la vasca per il battesimo ad immersione. A sud è ancora riconoscibile la sedia episcopale.
A quale secolo risalga esattamente questo gioiello dell’architettura non è ancora certo: i critici non hanno finora raggiunto una soluzione definitiva.